Siamo nell’era della comunicazione e i bambini sono super stimolati, sempre più intelligenti e attivi. Eppure l’Organizzazione Mondiale della Sanità lancia l’allarme per il ritardo del linguaggio e sempre più bambini sono definiti “parlatori tardivi”. Avendo un asilo nido ammetto che, io per prima, mi sono sentita completamente immersa in questa nuova realtà sociale in cui i bambini, negli anni, raggiungono sempre più tardivamente le loro competenze linguistiche. Mi sono quindi documentata, informata, ho seguito congressi e relazioni, ho chiesto strumenti a logopedisti e neuropsichiatri per capire meglio cosa ha portato a questo risultato e, soprattutto, cosa potevo fare per sostenere i bambini e le loro famiglie.
Facciamo un po’ di chiarezza
Innanzitutto diciamo che il “parlatore tardivo” non è un bambino con patologia, ma presenta una condizione di rischio di sviluppo di un successivo disturbo del linguaggio espressivo/ricettivo. Tengo molto a sottolineare questo aspetto perché a volte l’ansia dell’adulto alimenta una condizione ancora assente.
Ma come nasce la comunicazione?
La comunicazione del nostro bambino inizia con il suo primo sorriso, intorno ai 2/3 mesi di vita. Da qui si apre una finestra verso il mondo esterno, in neuropsicologia il cosiddetto “sorriso sociale“.
Cosa alimenta questo approccio comunicativo?
Gli stimoli principali sono tre: emozione-imitazione-ripetizione. Il neonato ha provato una serie di emozioni positive, di conforto, di rassicurazione, di presenza, di coinvolgimento ed empatia, ogni volta che la sua mamma, guardandolo negli occhi, gli ha parlato, e nel mentre lui sorrideva. Così il piccolo ha interiorizzato un processo comunicativo efficace e positivo e lo ha ripetuto. Se ci pensate tutto questo ha in sé una magia immensa. A soli due mesi un essere così piccolo è capace di fare una cosa così grande! Da qui si apre la possibilità di ampliare questa comunicazione sempre di più confermando l’ascolto attivo, cioè quando un adulto risponde ai sorrisi, ai gorgheggi, alle espressioni del bambino con altrettanta partecipazione ed entusiasmo espressivo. A questo si aggiunge la responsività del cargiver (cioè dell’adulto di riferimento, mamma, papà, nonni, tata), che prontamente risponde alle esigenze del bambino, osservandole, identificando il suo bisogno, descrivendolo e, infine, soddisfandolo. Tutti questi passaggi permettono al piccolo di acquisire consapevolezza, sicurezza e interesse, ma soprattutto di sentirsi un individuo pensante, amato e considerato, non solo accudito.
Le strategie per promuovere lo sviluppo del linguaggio non sono per il bambino, ma per i genitori che imparano ad agire nella zona di sviluppo prossimale, cioè mantengono vivo lo sguardo, osservano e condividono ciò che fanno, restituendo al piccolo un vissuto a lui più facile, conosciuto e interessante, traducendo in parole ciò che lui comunica con azioni, gesti e vocalizzi, denominando ciò che indica e osserva il bambino. Tutto questo con la massima espressione facciale, mimica e gestuale, che è quella più immediata per il piccolo.
Un altro aspetto fondamentale è quello di lasciare al bambino il tempo per esprimersi, senza anticiparlo, perché questo alimenterebbe il senso di ansia da prestazione togliendo spazio alla spontaneità.
Insomma possiamo dire che le fondamenta dello sviluppo del linguaggio risiedono in un costante contatto visivo, in cui il rapporto madre-bambino si definisce nella relazione di rispecchiamento, sostegno, contenimento e sintonizzazione affettiva, dove la madre restituisce al bambino ciò che fa e che vede in parole, con tutta la sua espressività e senza chiedere nulla. Sarà il bambino a ripeterla in modo spontaneo e non in risposta ad una richiesta.
La comunicazione è quindi un bisogno soddisfatto e interiorizzato e non un apprendimento imposto.