Partiamo dalla comunità: come definirebbe questo concetto?
Come antropologo, ho qualche resistenza rispetto a questo termine. La comunità presuppone un gruppo di persone che stanno insieme, e si sentono comunità: è un qualcosa che si basa su un sentimento di appartenenza. Nell’ambito degli studi antropologici si parla di “culture” - rispetto ai popoli nativi ad esempio, come può essere un villaggio nella foresta amazzonica, ma anche rispetto a un paesino di pastori in Abruzzo. La cultura si basa su una condivisione, su un patrimonio invisibile ma comune. La comunità ha un’accezione più volontaria.
Ecco, a proposito di volontarietà. Nel suo libro Essere amici lei sottolinea il carattere volontaristico e quindi revocabile dell’amicizia: è una scelta, continua. Non è questo il fondamento della comunità?
Sì certo, questa è la caratteristica dell’amicizia: ma appunto è un legame fluttuante, sempre soggetto a revoca. E non è facile costruire qualcosa su una base fluttuante. D’altra parte, è vero che la volontarietà è la base della democrazia: il contratto sociale come scelta. In questo senso la comunità ha bisogno di un luogo di appartenenza.
Si spopolano le comunità fisiche, rurali, ma il web pullula di community virtuali. La community può essere un valido sostituto della comunità, una evoluzione positiva? O il contatto fisico è un elemento imprescindibile? In un certo senso questi 3 mesi di lockdown sono stati una prova generale, un’accelerazione: che cosa ci dicono del futuro?
La rete come posto “buono in sé” è un equivoco figlio dell’utopismo californiano partito negli anni ’80 con la rivista Co-evolution Quarterly. L’errore fu quello di confondere lo strumento, neutro, con la base ideale: un’illusione, che cade quando poi la base ideale viene svuotata dall’approccio volto al profitto della Silicon Valley.
Quello che ci è rimasto è uno strumento, che come tale viene usato: speravamo che la tecnologia della rete producesse un enhancement, invece è un surrogato. E proprio il lockdown durante la pandemia ce lo ha dimostrato: ci vedevamo su Skype perché non potevamo incontrarci dal vivo, non perché fosse una figata. Gli strumenti hanno perso la loro prosopopea: anche rispetto a Facebook c’è una certa disillusione, dopo tutti gli scandali e quello che è venuto fuori sulla privacy e i dati; continuiamo a usarlo, ma sappiamo che è una fesseria.
Dai gruppi di cacciatori-raccoglitori ai gruppi d’acquisto solidale, passando per le fattorie, storicamente le comunità si raccolgono attorno al cibo, alla sua produzione e/o al suo consumo. Si può mettere in relazione il benessere - non solo come stato fisico e di salute - di una comunità, con il modo in cui si relaziona rispetto al cibo?
Chiaramente gli indigeni - e per indigeni come ho detto prima intendiamo sia il nativo sudamericano che l’abitante del paesino appenninico - hanno un rapporto primario con le risorse alimentari: un rapporto simbolico oltre che funzionale. Proprio perché sono così vicini alla produzione del cibo, c’è una componente che va ben oltre la sopravvivenza. Quella agricolo-pastorale è sicuramente una forma di comunità, perché ha a che fare con la gestione di un luogo, con un insediamento.
Negli ultimi anni il settore del biologico e delle coltivazioni sostenibili ha avuto un grande sviluppo. Più in generale, si contesta l’idea dello sfruttamento illimitato delle risorse ambientali: sono strade da seguire, anche attraverso il recupero dell’idea di comunità? Una produzione e un consumo di cibo più vicini alla natura, meno sottoposti a processi industriali, possono avere un effetto benefico sulla società?
Quella del biologico è stata una vera, grande rivoluzione: il movimento che è nato attorno a Slow Food, al recupero del cibo naturale è stata la maggiore rivoluzione degli ultimi decenni, che ha coinvolto le classi medie. Un po’ alla volta tutti o quasi hanno preso coscienza che il cibo dovesse essere sano, buono, e per alcuni anche giusto.
I valori biologici hanno il vantaggio di prescindere dalle ideologie, e in questo modo possono raccogliere adesioni trasversali, in fasce ampie. D’altra parte, questo è anche il motivo della loro fragilità.
Il principale lascito positivo di questa rivoluzione è quello di aver riportato l’aspetto culturale al centro del discorso sul cibo. L’elaborazione degli alimenti è cultura, e ricordiamolo, la gastronomia non nasce dagli chef ma dalle persone del popolo che cucinano tutti i giorni.